silenzio si parlaLa lingua dei segni è una lenta danza di gesti-parole La usano i sordi ma ha molto da raccontare agli udenti di Elena Lowental Dentro il traffico, assediati da una sgradita colonna sonora, aggrediti dai frastuoni, capita di invidiarli. È un sentimento acidulo, condito di impotenza: quel silenzio che solo i sordi sanno cogliere, noi non possiamo nemmeno immaginarlo. Che non sia soltanto voce dell'assenza ce lo insegnano l'arte e la musica, che abbia anche un tessuto morale lo dice la fede: per un viaggio sui suoi molti significati ecco il libro di Nicoletta Polla Mattiot, Riscoprire il silenzio (edito da Baldini e Castoldi e che sarà presentato mercoledì 13 giugno alla fondazione Sandretto di Torino).
Ma il silenzio dei sordi è un'altra cosa. È una condizione del vivere, e del sentire: da dentro questa società sovraccarica di rumori, quel silenzio irraggiungibile che solo i sordi odono è la chiave per capire la complessità di questa condizione -più una diversità che un handicap, più un orizzonte alternativo che una limitazione. Perché il silenzio dei sordi è tutto fuorché muto. Ha toni e melodie: ascoltarli parlare, comunicare con e fra loro è entrare dentro un mondo dotato di un'animazione particolare, dove le parole prendono corpo, i gesti sono suoni. Fra i fornelli de La maggiorana, ad esempio, una scuola di cucina che organizza da anni corsi per gruppi di sordi (www.lamaggiorana.it), il clangore di pentole e stoviglie si fa più sommesso, ma non per questo meno vivace. Persino il tempo ha misure diverse: «I sordi sembrano avere una concezione del tempo legata alla loro condizione di comunità frazionata e dispersa sul territorio: le riunioni tra amici si prolungano molto al di là dell'evento che le ha generate... e tardano a lungo prima di lasciarsi . La concezione del tempo è, dunque, funzionale alle possibilità di socializzazione». Dentro questo tempo così propenso a dilatarsi, la comunità sorda è assai loquace e inevitabilmente poliglotta: oggigiorno i sordi sono quasi tutti almeno bilingui. Nati in gran maggioranza da genitori udenti (i sordi figli di sordi sono molto pochi), sviluppano sin dall'infanzia due sistemi di comunicazione: imparano ad esprimersi con le parole e ad ascoltare con gli occhi, attraverso la lettura labiale. Ma usano anche una lingua dei segni che ha molto da raccontare agli udenti, e a cui Tommaso Russo Cardona e Virginia Volterra dedicano una preziosa introduzione (Le lingue dei segni. Storia e Semiotica, Carocci editore). Nulla a che vedere con l'alfabeto muto che si usava in classe nel'illusione che i professori non capissero. Le lingue dei segni sono dei sistemi complessi e articolati che legittimamente rivendicano, come rileva Tullio De Mauro nella prefazione al volume, lo statuto di «lesser used language» nell'Unione Europea1 e in Italia; e che invece, a seconda dei Paesi, vivono riconoscimenti giuridici ancora fluidi. Prima di tutto, si ha da entrare nell'ordine di idee che le lingue dei segni sono strumenti non tanto dell'emarginazione quanto della comunicazione in senso lato: pensare all'interpretariato in questo ambito come a una professione comunemente riconosciuta, fornire nella scuola una conoscenza diffusa. Il database internazionale Ethnologue censisce 114 diverse lingue dei segni, da quella americana usata da mezzo milione di persone a quella di un villaggio del Ghana praticata da circa 300 nativi. La lingua italiana dei segni si chiama LIS, chi la parla è detto «segnante». Non è solo un insieme di gesti «iconici», cioè atti a descrivere l'oggetto del parlare, non è nemmeno un codice per disegnare nell'aria le lettere dell'alfabeto. Le parole, nella lingua dei segni, sono dei gesti composti, formati da quattro unità minime: il luogo in cui il segno si sviluppa, la configurazione della mano, l'orientamento con cui la mano si muove, e il tipo di movimento. Queste quattro variabili costruiscono il lessico e il discorso. Alcune parole sono facilmente intuibili dall'immagine che producono (come ad esempio il verbo «bere») - con l'ostacolo, per i non segnanti, della rapidità di sequenze che forma la conversazione: per ascoltare i sordi segnanti ci vuole un occhio molto lesto. Altre sono, «a prima vista» del tutto incomprensibili («cane» ad esempio, che è un gesto fra palmo della mano e mento). La complessità di questa lingua è bene evidenziata dalla sua poesia, la cui traduzione in italiano è inevitabilmente riduttiva. La poetica dei segnanti è «tangibile», non è verso bensì rappresentazione diretta delle parole, che attraverso i segni parlano da sole, senza alcuna mediazione. Il discorso diventa dunque, come risulta dall'esempio fornito nel libro, la poesia Orologio di Rosaria Giuranna, una sorta di silenziosa onomatopea della realtà, una lenta danza di gesti-parole. Al di là di questo e di altri aspetti artistici nel mondo della sordità (di cui una ricca mappa si ha ne Il colore del silenzio. Dizionario biografico internazionale degli artisti sordi, pubblicato di recente da Electa), la lingua dei segni rappresenta un patrimonio espressivo che meriterebbe di diventare più popolare. E non solo quale strumento di comunicazione fra sordi e udenti: anche e soprattutto come salutare antidoto a questa società tanto prodiga di rumori molesti quanto ignara di quel che può regalare il silenzio. BOX |