velvet n°7

LA MODA HA LE IDEE CHIARE E ALLORA PARLA POCO ANZI TACE

Spesso si concedono colori decisi. Ma li sanno usare con buona educazione. Certi vestiti di stagione detestano esprimersi a voce alta. Eppure si spiegano benissimo.

di Elisabetta Muritti

C'è una moda muta che in realtà sa esprimersi con pertinenza efficacissima. Certo, non chiacchiera a vanvera, non alza la voce, non dice le parolacce, non ha paura dei silenzi, non dice cioè, non diffonde spamming. Non diffama gli assenti e non offende i presenti. Pensa bene prima di parlare, risponde appropriatamente, e sinteticamente, a ogni domanda. E, si sa, in questo mondo di cellulari impazziti (e spiati), di iPod sempre appesi alle orecchie fino a diventarne delle appendici, di aggressività urlata e sbracata, una moda così rischia di essere percepita se non altro come afona. E pensare che guardando certi abiti di Jil Sander, disegnati per questa stagione ancora dal bravissimo Raf Simons, ovvero i "capostipiti" di questa poetica, sommessa tendenza, si resta colpiti dalla forza di certi colori: giallo pannocchia, blu benzinaio, verde prato... E allora? Allora stiamo parlando di scelte precise, di nitore estetico, di carattere riconoscibile e brillante. Tutte doti, queste, che danno contemporaneamente fastidio alle cultrici della prudenza e del sex appeal, dell'invidia sottotono e della maldicenza rumorosa, del beige e della straborchia. Ma che non schiamazzano assolutamente. Perché sono prive di orpelli, di fronzoli, di specchietti per le allodole, e semplicemente riempiono dei contorni studiatissimi e calibrati. Insomma, una moda muta perché funzionale. A se stessa e a quelli che veste. Una camicia è una camicia, un tubino è un tubino, uno spolverino è uno spolverino. Niente di più e niente di meno. Niente da dichiarare. Con un coraggio della sobrietà che non è amore per il poco e niente. Tutt'altro. È semmai passione per le idee. Tante e tutte chiare. È lo stesso Dna di certi arredi di Cassina, i sofà di Jean Marie Massaud, le riedizioni dei pezzi dei grandi del modernismo, pensiamo a Charlotte Perriand... E pensiamo anche ai Wall Drawings e ai Wall Paintings di Sol Lewitt, appena mancato, rimpianto maestro di un concettualismo e di un minimalismo pieni di sentimento e al tempo stesso di rigore, e, soprattutto, ricchi di colori perentori e diretti. Già. Concettualismo e minimalismo. Nel senso buono dei termini. E senza un'unghia di revival di certo pauperismo denutrito anni Novanta, decennio per certi versi di gusto più spaventoso di quello che l'ha preceduto. Ecco il cuore del problema, ecco la pelle più tenera di una moda che ci piace molto, anche perché, pur con tutti i suoi silenzi assennati, tutta la sua sapienza intellettuale e la sua aria un po' "secchiona", la si può prendere con leggerezza e un po' di elegante disimpegno. Vedi i fourreaux a sacchetto di Balmain, le sottovesti di Calvin Klein e di Tse, i soprabitini peso piuma di Proenza Schouler e di Mare by Mare Jacobs. i camicioni finto premaman, elegantissimi, di Marni, i "grembiuli" di Narciso Rodriguez e Dries Van Noten. vedi certi abitini di Miu Miu, costruiti come un Meccano, vedi certo look maschile, stupendo e pieno di femminilità dandy, di Paul Smith. Tante cose, insomma. Una diversa dall'altra. Ma comunque accomunate da una sensazione di sostanza espressa con pacatezza, quiete. E dal taglio perfetto, senza pentimenti. Senza una parola di troppo.


SILENZIO PER FAVORE, SENTITE CHE LUSSO,
che valore, che arte

Gli strumenti espressivi del sublime stanno nelVanima e nel cervello. E in un uso più inorale del non detto.
di Isabella Elena Avanzini

è uno strano rapporto tra silenzio e vita contemporanea, e non è solo questione di cose non dette e di non-suoni. La musica nell'iPod è un'ininterrotta colonna sonora; parole, sveglie e traffico scandiscono i ritmi. Perciò silenzio significa anche sostare, dar ascolto, respiro e spazio. Privilegi a cui siamo ormai poco abituati e sempre meno educati. Non è infatti una cosa scontata, l'educazione al suono: «Ovunque siamo, noi sentiamo sempre dei suoni. Se non vi prestiamo ascolto, ci irritano. Se invece li ascoltiamo, li troviamo affascinanti», disse John Cage, compositore sperimentale che volle musicare proprio il silenzio. Nel '58, ancora sconosciuto, si lasciò prendere in giro da Mike Bongiorno dopo essersi esibito in un concerto di caffettiere a "Lascia o raddoppia?". Quasi cinquantanni dopo ci ricorda la sua provocatoria genialità ispirando "Silenzio. Una mostra da ascoltare" (Fondazione Sandretto Re Rebaudengo, Torino, 1 giugno - 23 settembre, www.fondsrr.org, tei. 011.3797600), che riunisce audio, video, installazioni e performance di 50 artisti, dagli anni Sessanta a oggi. Una mostra apparentemente muta, perché si gode tassativamente con le cuffie alle orecchie, per sottolineare il valore protagonista del suono, oggetto di indagine e strumento d'espressione delle opere selezionate. Arte che tace, ma che la dice lunga, è anche quella che si recita sul palco del parigino e neonato International Visual Theatre, voluto da Emmanuelle Laborit, attrice sordomuta. Un teatro per sordi, con spettacoli in francese, in LIS (la lingua dei segni) e a volte con monologhi silenziosi senza traduzione per gli udenti: «È bene che ci siano momenti in cui lo spettatore udente si senta un po' perduto, quindi costretto a osservare meglio. Perché è talmente abituato ad ascoltare che non si concede più il tempo dello sguardo». Come quello esplorato da Cage e recitato dalla Laborit, crè il silenzio esemplare di Beethoven e Goya, sordi capaci d'urlare la passione e d'emozionare fino allo struggimento chi s'immerge nei loro capolavori muti di note e colori. Esempi come questi si sfogliano ne "II colore del silenzio. Dizionario biografico internazionale di artisti sordi di arti visive" (a cura di Anna Folchi e Roberto Rossetti), che sottolinea come di fronte a una tela o un blocco di marmo non c'è parola che serva: gli strumenti espressivi per farne un'opera sublime sono nell'anima e nel cervello. E, pur tacendo, sanno incantare. Non è tuttavia solo d'oro il silenzio che luccica: dipende sempre dal suo perché. Vedi "Post Secret", uno dei blog più frequentati del web. Ha una peculiarità: è il ricettacolo di chi ha voglia di spiattellare i segreti. Propri e altrui. Alcuni sono buffi, la maggior parte è volgare, inquietante, triste. Chissà quant'è silenzioso il vissuto quotidiano delle persone che affidano confessioni inconfessabili alla rete. E a proposito di tecnologie: Trenitalia sta sperimentando "carrozze del silenzio" in cui siano banditi cellulari e relative conversazioni. Proprio in conseguenza del fatto che la diseducazione al silenzio dilaga, e saper tacere è una qualità, forse un'arte. E come tale va appresa e trasmessa. Così, silenzio vuoi dire anche costruire un rapporto diverso col tempo delle proprie esperienze, come spiega il saggio "Riscoprire il silenzio" a cura di Nicoletta Polla-Mattiot (Baldini Castaidi Dalai): imparare a tacere in un viaggio educativo senza punti d'arrivo o conclusioni, che si appaga del suo peregrinare percorrendo i più diversi settori, dalla letteratura alla geografia, dalla musica alla psicoanalisi, a qualunque età. E, una volta maturata una certa pratica a non dir nulla al momento giusto, va ricordato che star zitti non basta. Ci vuole comunque un obiettivo, una strategia, una volontà. Far silenzio significa qualcosa solo quando l'intento non è negare la comunicazione, ma espanderla. E non si deve nemmeno ammutolirsi per paura o pudore. Semmai, va tenuto presente che tacere in tempo è una scelta potente e rumorosa quanto un grido. Con una differenza: è molto più sobria, efficace ed elegante.