Che cosa dice il silenzio
Intimità, rispetto, complicità. Ma anche civetteria, corteggiamento, mistero, lusinga. Si può comunicare senza parole. Anzi, in certe situazioni, si può dire di più e meglio stando zitti. Un paradosso? Lo sostiene un libro appena uscito. Che invita, nella società del frastuono perenne, a rivalutare chi sa tacere. In coppia, nei rapporti con gli amici, nelle relazioni sociali.
di Lisa Corva
Alla ricerca del silenzio: nella natura, in fuga dal caos delle città. Ma anche nella vita di tutti i giorni.
Invito con silenzio. Invito con l'obbligo — il piacere — di tacere. Succede? Succede. Per esempio in America, dove dopo i Silent Meeting Club (l'idea di un artista, intervistato a pag. 90), dilagano gli enigmatici «silent party», dove si comunica rigorosamente senza parole. Insomma: i partigiani del silenzio avanzano. E si riuniscono a Milano il 13 dicembre, dove nel Eoyer del Teatro Franco Parenti verrà presentato il primo libro che riepiloga tutto il positivo di chi tace: Riscoprire il silenzio (Baldini Castoldi Dalai). Una raccolta di saggi a cura di Nicoletta Polla-Mattiot (che, tanto per non tacere un'informazione, è anche caporedattrice di questo giornale). Riscoprire il silenzio, dunque... O quantomeno, illuminare tutto quello che ha di positivo. E che di solito viene trascurato. Ignorato. Per farlo, i «partigiani del silenzio» hanno viaggiato nelle terre del non-detto: nell'arte, nella musica, nella poesia, nella natura... Analizzando le pause, le sospensioni, le assenze. Che, a volte, significano molto più delle parole. Ed è un viaggio interessante (soprattutto per quelli che, come chi scrive, hanno difficoltà a stare zitti). Un viaggio anche nelle pieghe della vita di tutti i giorni. Perché il silenzio parla, quotidianamente.
UN SMS DAL DESERTO Innanzitutto, un piccolo chiarimento. Il silenzio che ci interessa non è quello del deserto, del ritiro nell'ashram, della fuga dalla routine e dalla vita di sempre. Quelli sono silenzi mistici, teologici, «assoluti»... No, il silenzio di cui vogliamo «parlare» è il silenzio in cui inciampiamo ogni giorno. Anzi, i silenzi, al plurale: quelli «relativi», di relazione con l'altro. E quindi nei rapporti di coppia, in famiglia, tra amici, sul lavoro... Quei silenzi improvvisi che a volte non sappiamo come interpretare. O cheusiamo, quasi senza accorgercene, in una situazione in cui ci si aspetterebbe da noi dialogo. E' allora che l'assenza di parole può diventare un veicolo, uno strumento. Un tramite per avvicinarsi davvero. Forse non è un caso che, nella nostra società di suoni e frastuoni, abbia ormai un posto privilegiato proprio la comunicazione silenziosa: quella delle e-mail e degli sms. Lo sottolinea una delle autrici, Franca Parodi Scotti: «Una comunicazione più discreta e rispettosa, che consente maggior libertà all'uno e all'altro degli attori, che — silenziosamente — possono leggere, rispondere, pensare, immaginare quando vogliono, nei tempi scelti». Un piccolo bip-bip ci annuncia l'arrivo di un sms, di una mail: è il filo che ci lega agli altri. Possiamo scegliere noi se «connetterci» o meno, comunicare o no. Senza rumore.
IN COPPIA: PIÙ' INTIMITÀ' II silenzio nelle relazioni «comunica», dunque. Ma cosa dice? Innanzitutto emozione: quanto più è forte, più è intraducibile. Indicibile. Un esempio che tutte abbiamo sperimentato? I veri corteggiatori (quelli sapienti, a cui difficilmente si resiste) non sono gli uomini logorroici, quelli che ti travolgono di racconti e banalità auto-riferite, ma quelli che sanno fare le giuste pause, inserire delle sospensioni in cui può «accadere» altro, in cui trovano spazio sguardi e gesti: quell'attimo di vuoto prima di un bacio... Perché l'amore, in fondo, non si può dire. Nel momento in cui lo diciamo sembra perdere poesia, cambiare segno, non essere quasi più amore. Infatti, come sottolinea l'antropologo Franco La Cecia, la fine di un amore arriva quando si comincia a parlarne agli altri. Chi lascia, dice la sua verità. E' la differenza tra il non-dicibile della passione e il dicibile della fine... Ma il silenzio non è solo quello — tortissimo — dell'amore condiviso. E' anche quello dell'intimità. Intimità con una sorella, un'amica, una persona cara. Perché è dimostrato (lo dimostra la psicologia comportamentale) che la quantità di silenzio tollerabile tra due persone è direttamente proporzionale al grado di conoscenza. Avete presente l'imbarazzo che ci spinge a ogni costo a dire qualcosa, quando siamo in ascensore con uno sconosciuto? Certo: più ti conosci, più sei in grado di stare insieme senza parlare.
SE MI AMI, NON DIRMI TUTTO Quanta frenesia nel raccontare, «dirsi tutto», tra amici, ma anche in coppia. E quanti errori, in quest'ansia di ipercomunicazione che porta solo al l'assordamento. Perché è vero: non bisogna sovraccaricare di parole un rapporto. Non solo perché è impossibile (e sbagliato) condividere tutto, essere completamente trasparenti. Ma anche perché bisogna saper rispettare l'altro: che sia il fidanzato o l'amica. E i suoi spazi segreti. Un concetto delicato che ben è espresso, con un'immagine poetica, nel Memoria! db convento di José Saramago. Quando al mattino il suo amante si sveglia, Bilunda resta coricata accanto a lui, mangiando un pezzo di pane a occhi chiusi. Lei possiede un dono meraviglioso e terribile: può guardare attraverso i corpi, sotto la pelle e vedere la verità dentro agli uomini. Ma «Bilunda non vuole leggere il pensiero del suo amante, non vuole violare la sua identità e integrità, non vuole metterlo completamente a nudo, né scoprire tutto, anche quello che lui non sa o non può dirle». Per una ragione semplicissima, perché lo ama. Qui il silenzio è tutto. E' fiducia, devozione, segreto. E" tutto il positivo del tacere. Ed è una sfida. Perché, nella società del chiasso, di chi alza continuamente il volume, l'ultima strategia può essere — in amore, sul lavoro, nell'amicizia — quella di fermarsi, per un attimo. E tacere, quanto basta, per ascoltarsi davvero.
BOX
IL CLUB DI FILADELFIA
Troviamoci e stiamo in silenzio: un'idea e un nome, Silent Meeting Club. Dietro, c'è un artista americano: John Hudak, che li ha ideati e «sperimentati» per la prima volta a Filadelfia.
Com'è nato il club dei silenti? «Mettevo in giro per la città dei poster, spiegando cos'era il Silent Meeting Club e quando si sarebbe tenuto il prossimo».
Il luogo?
«All'inizio, una libreria. Eravamo minimo cinque, massimo venti persone, più ovviamente i curiosi, i passanti... Poi, ho cominciato a organizzare gli incontri silenti nei parchi, sui ponti, vicino a sculture o monumenti, all'angolo di una strada...».
Quali sono state le reazioni? «Assolutamente positive. Penso che alla gente piacesse l'idea di stare insieme potendosi concentrare sul guardare, sull'ascoltare (i rumori di sottofondo, della natura), ma senza sentirsi obbligata a parlare. Non c'erano regole: chi veniva, poteva stare anche solo cinque minuti. Ma in media chi partecipava al Silent Meeting Club rimaneva almeno un'ora».
Come ha avuto l'idea? «Ero reduce da un periodo molto intenso di party e mi ero accorto che il chiacchiericcio costante delle feste era, sostanzialmente, senza alcun significato. Ho cominciato a pensare a come eliminare l'inutile "small talk", per poter, invece, condividere qualcos'altro. Altre emozioni. Solo più tardi ho scoperto che un'idea simile l'hanno avuta i Situazionisti, in Francia. E poi, c'erano gli "incontri silenti" dei Quaccheri...».
Per quanto tempo sono andati avanti, i Silent Meeting Club? «Un paio d'anni e una decina di incontri. Poi mi sono trasferito: ora vivo a Brooklyn. Ma sono andato avanti con la sperimentazione sui suoni, sul silenzio, e naturalmente sulle emozioni».