DIECI GIORNI SENZA UNA PAROLA
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E senza un giornale, una radio, un libro, una penna per scrivere. Senza tv, telefono, computer. Senza la chiacchiera di un'amica, lo sguardo di un conoscente, il suono della tua voce. Silenzio assoluto. Ma nulla di mistico o trascendentale. Puoi essere ateo, giansenista, musulmano: non cambia. Semplicemente (!?) si tratta di lasciar scorrere il tempo osservando le proprie sensazioni fisiche. E prima di dire che non fa per voi leggete qui...
di Silvia Ranfagni |
NESSUNA DISTRAZIONE
IN MODO CHE LA MENTE
CONTINUI IMPERTERRITA
IL SUO COSTANTE LAVORIO
(UN VIAGGIO DA FERMI)
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«PER LA FELICITÀ CI VUOLE MOLTA DISCIPLINA, SI TRATTA di un lavoro della mente». La frase è su un ritaglio di giornale stropicciato che nei momenti neri mettevo sul tavolo come una carta da gioco. Spesso mi ritrovavo a consultare queste parole come dei tarocchi, aspettandomi da loro una divinazione e nei momenti peggiori mi ci aggrappavo come a una boa, un'istante prima di affogare. Ma che diavolo voleva dire una frase simile?! Per quanti sforzi facessi la noia e a volte l'angoscia mi invadevano all'improvviso e «la felicità è un lavoro della mente» mi tornava in mente solo per irritarmi. Se era un lavoro, era per pochi eletti, una progenie detestabile e inondata di serotonina a cui non appartenevo, così la pensavo. Alla ricerca della felicità sono partita per un viaggio fatto di dieci giorni di silenzio. Dieci giorni senza pronunciare una frase di cui pentirmi, né ascoltarne una su cui ragionare. Senza nessuna distrazione per la mente che ha continuato, imperterrita e in assenza di fatti, il suo costante, sfinente lavorio. È stato un viaggio da ferma, un lungo percorso senza luoghi, alla fine del quale mi sono dovuta ricredere.
TUTTO QUESTO È AVVENUTO IN UN CENTRO MEDITAZIONE Vipassana: una tecnica laica, anche se concepita nella tradizione buddista 2500 anni fa. Puoi essere ateo, giansenista o musulmano, non fa alcuna differenza, la tecnica non ha niente a che fare con la religione, né ha qualcosa di mistico. Si tratta di rimanere dieci ore al giorno nell'osservazione delle proprie sensazioni fisiche. Più di centomila persone partecipano ogni anno a questi corsi e in circa cento paesi del mondo oggi esiste almeno un centro dove apprendere il metodo, uno anche in Italia e si trova sugli appennini tra Parma e Piacenza, su un cocuzzolo sperduto a mille metri d'altezza.
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Per il corso non si richiede pagamento, la tecnica non è commercializzata e soltanto dopo avere completato i dieci giorni e avere sperimentato di persona tutti benefici della pratica, si può decidere di fare un'offerta. Ed era stato proprio quest'ultimo dettaglio che mi ha convinto a tentare l'esperienza, rassicurandomi sulla serietà della faccenda.
NON AVREI AVUTO IL CELLULARE, NÉ LA RADIO, NÉ IL PC, niente giornali, tv, chiacchiere o una qualunque distrazione. Rimanere in silenzio non è poi questa grande impresa, mi dicevo. Dieci giorni non sono un periodo così lungo, ripetevo salendo verso i monti. Sarei stata sola con me stessa, tutto qui... Era proprio questa la parte spaventosa! Arrivata al centro mi è stata mostrata la stanza dove avrei dormito, e l'unica cosa che vedevo era una minacciosa sacca di pelle appoggiata in terra. C'erano altri letti nella stanza, con chi l'avrei divisa? Chi era quell'essere invadente che già un po' destestavo che aveva lasciato la grossa borsa come un cane da guardia? Poi mi hanno fatto vedere la sala dove avrei trovato del cibo a orari stabiliti e ho ascoltato un nastro con le regole da seguire («...andarsene via prima del tempo potrebbe esservi dannoso. Se qualcuno ha cambiato idea e vuole andarsene, può farlo adesso...») e che sono la base per imparare. Il suono di un gong ha sancito il silenzio.
I primi giorni la meditazione consisteva solo nell'osservare ogni respiro che entrava e cusciva dalle mie narici. L'esercizio pare semplice e ha lo scopo di calmare la mente prima di imparare la tecnica vera e propria. Ebbene, una scimmia che salta tra i rami era niente in confronto alla mia testa. Dopo pochi istanti in ascolto del respiro, la mente stava già preoccupandosi che non avevo un fidanzato, o di quanto era difficileparlare con mia madre, o se ce l'avrei mai fatta a mettere insieme i soldi per andare in Giappone.
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TUTTI SOLI CON SE STESSI? AIUTO, CHE PAURA !
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Nella penombra silenziosa della sala di meditazione mi risvegliavo da questi pensieri agitatissima e tornavo a osservare quel respiro, l'unica cosa che stava davvero accadendo. Ma un istante dopo la scimmia riprendeva a strillare per quello che non avevo fatto nella vita, per le sorti del pianeta e perché non mi entrava più la quarantadue. Non ne voleva sapere di stare buona e avvertendo la presenza di altri, buoni e in silenzio intorno a me, mi suggeriva che ero proprio l'unica deficiente che non sapeva fare l'esercizio. Intrattenevo accese discussioni con amici assenti, litigavo con mia madre che non c'era e parlavo tristemente con un amore finito: tutto da sola, proprio come i pazzi.
MA PER FORTUNA IL MIO SGOMENTO ERA TENUTO A BADA dalla disciplina, quella che si accetta per imparare il metodo. La riassumo così: ci si sveglia presto, si mangia poco. Almeno questo è quello che ho pensato i primi giorni. Il suono del gong ti scaraventa dal letto alle quattro di mattina, alle quattro e mezzo sei a meditare fino alle sei e mezzo, quando fai colazione e riposi. Dalle otto mediti fino alle undici, mangi leggero, e poi di nuovo a meditare fino alle cinque. E così via, fino alle nove e mezzo di sera. A dirlo sembra una punizione divina, però tutte quelle regole e quegli orari mi salvavano dallo spaventoso maremoto che stava avvenendo in me.
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Nel centro c'erano anche altre persone. Solo donne, perché uomini e donne vivono e meditano separati, e ci scivolavamo accanto come spettri, senza mai guardarci, né parlarci. Col passare dei giorni a volte era uno starnuto, uno sbadiglio, qualcuno che ha russato per un istante cedendo alla stanchezza, a volte un colpo di tosse oppure un sospiro: quei suoni così concreti e fisici mi consolavano e anche a quelli mi aggrappavo per trovare un po' di calma. Quello che mi aiutava di più era la presenza della ragazza con la quale dividevo la camera. Mi capitava con la coda dell'occhio di intravederla, o sentire che urtava con un piede il suo borsone, mentre ero voltata di spalle. L'ho ascoltata agitarsi nel sonno e poi gridare per un incubo, senza fare o dire qualcosa. Altre volte il fruscio delle sue lenzuola mi ha salvato: nelle notti insonni, senza un libro da leggere, una penna per scrivere, una radio da accendere, i miei pensieri si moltiplicavano e diventavano reali, fino a spaventarmi. Poi un suono accanto a me mi strappava dalle mie paure. Era questa ragazza che si girava nel letto e mi riportava al presente. E adesso le ero profondamente grata per esserci.
Cosa accade nella testa dopo tre giorni di silenzio? Dopo ore e ore che la si esercita a rimanere nel presente, consapevole di ogni azione, che la si trattiene dal saltare avanti e indietro nel tempo?
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ALLE 4 DELLA MATTINA TI SVEGLIA IL GONG
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Tutto quello che succedeva si trasformava in un evento: il sapore di una mela mi ha invaso la mente, mi pareva di non averne mai assaggiata una prima. Mi sono ritrovata a osservare delle formiche che trascinavano un granello tra gli steli dell'erba come fosse una finale alle Olimpiadi. Mi sono incantata all'odore del prato umido. Ho ascoltato un temporale come un musicologo un concerto di Berio. In silenzio le cose piccole non esistono: ogni cosa diventa grande e rivela la sua immensa meraviglia. Non è l'immobilità, ma è proprio la corsa che annoia, questo l'ho scoperto sulla mia pelle. Dopo alcuni giorni, avevo imparato a osservare l'incessante andirivieni dei pensieri, proprio come quando seduti su una roccia si osserva l'andare e venire delle onde. Non dovevo reagire, osservavo e basta. Era un nuovo punto di vista: io non ero quei pensieri. Ero altro. «La felicità è un lavoro della mente»: cominciavo a capire cosa significasse. Bastava riportare la mente a qualcosa di presente come il respiro, per vedere gioia e dolore scomparire come diapositive a proiettore spento. E poi stavo vivendo di carità, trovando cibo all'ora dei pasti e un letto quando calava la notte, senza che nessuno mi avesse chiesto denaro: una condizione insolita che mi stava cambiando. Anche questa regola, come le altre, aveva una ragione. Il mio enorme ego si stava piegando e ne ero cosi sollevata...! Questa continua difesa che insceniamo tra noi e l'esterno, la continua preoccupazione per i nostri desideri e timori è una prigione, e me ne stavo accorgendo proprio abbassando la guardia.
FUORI DALLA SALA C'ERANO DEI PAPAVERI, LI GUARDAVO con l'attenzione di una vecchia botanica del Sussex che non li avesse mai visti prima, e ne seguivo le sorti uno a uno. Uno stava per nascere, l'altro per morire, e col passare dei giorni assistevo, come con i miei pensieri, al loro costante sorgere e svanire. Anche le sensazioni del corpo, quelle che avevo imparato a osservare con la tecnica, anche loro sorgevano e svanivano continuamente. Un prurito sul naso appariva e se ne andava senza che io facessi niente, un dolore a un ginocchio si dissolveva solo osservandolo. |
Con l'esercizio e il passare delle ore riuscivo a distinguere le sensazioni più sottili. Non c'era un centimetro di pelle che non fremesse, rivelando l'incessante attività che avveniva là sotto. Una trasformazione senza sosta. Come i miei pensieri, e i papaveri, anch'io mi trasformavo. Lo avevo sempre saputo, mi era sembrata un'owietà, ma ora sentivo un'inesorabile reazione biochimica che avveniva in ogni parte del mio corpo istante dopo istante. Osservare le sensazioni fisiche è il modo più diretto per accorgersi della nostra impermanenza, e la scoperta non era affatto spaventosa. Ora che la mente aveva smesso di tormentarmi si era trasformata in un'incredibile consapevolezza di essere presente, in una pienezza senza pari.
DIECI GIORNI SONO IL TEMPO MINIMO NECESSARIO PER imparare la tecnica e con l'esercizio quotidiano si può soltanto migliorare lo stato di consapevolezza raggiunto. Ma anche solo dopo dieci giorni gli effetti sono evidenti e non lo sono stati solo per me. Questo metodo è stato adottato sia nel carcere di Tihar a New Delhi sia al North Rehabilitation Facility di Seattle e in altre prigioni nell'India e negli Stati Uniti. E si è rivelato efficace per la riabilitazione di migliaia di prigionieri: con l'esercizio ci si libera da tensioni e aggressività, e di solito le persone felici non se ne vanno in giro a uccidere né creano facilmente problemi di sorta. Esiste un bellissimo documentario dal titolo Doing Time, doing Vipassana che registra l'esperienza a cui si sono sottoposti più di mille detenuti, per lo più omicidi, e la loro uscita dopo i dieci giorni è uno spettacolo emozionante. Anch'io me sono andata con un grande sorriso e con me tutti quelli che erano nel mio corso. Dieci giorni senza un caffè, sigarette o un bicchiere di vino, nessun intossicante e solo meditazione: siamo usciti come sotto estasi. E ci sembrava di conoscerci, anche se non ci eravamo mai parlati. Tutti avevamo avuto la nostra scimmia da domare, la certezza di non farcela. E ci domandavamo come sarebbe stato tornare alla vita normale. Beh, è stato diverso.
Per saperne di più: ww.atala.dliamma.org |
L'HO SCOPERTO
SULLA MIA PELLE
QUELLO CHE ANNOIA
NON È L'IMMOBILITÀ
MA LA CORSA CONTINUA
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BOX
SILENZIO QUOTIDIANO
IN UN LIBRO TUTTE
LE RAGIONI PER RIVALUTARLO
Staccare dalla vita di tutti i giorni, chiudersi in un ashram o un eremo e sperimentare il silenzio come una vacanza dal rumore e dallo stress. Ma è proprio necessario? Abbiamo girato la domanda a Nicoletta Polla-Mattiot, che ha curato un libro in uscita da Baldini Castoldi Dalai (Riscoprire il silenzio. Arte, musica, poesia, natura fra ascolto e comunicazione) dove si sostiene l'esatto contrario: il silenzio va rivalutato nella vita di tutti i giorni e usato nel lavoro, nelle relazioni affettive, in pubblico e in privato.
Sì, ma come? «Basta cambiare punto di vista. Smetterla di considerarlo un lusso che non possiamo permetterci, un privilegio di chi vive in mezzo alla natura o ha tempo per sé. Capovolgere il problema: considerare il silenzio uno strumento - come l'auto o il telefono - per avvicinarci agli altri, anche meglio di quanto non facciamo con le parole».
Non è la sfida impossibile? «Anche questo libro lo sembrava. Chiedere a professionisti della parola come psicoanalisti, insegnanti o scrittori di applicare il silenzio e raccontarci la loro esperienza sul campo. E invece...».
Da dove si comincia? «La vita è piena di silenzi molto loquaci (e strategici). Per conversare bisogna stare zitti a turno, per capirsi occorre fare delle pause. Si crea più curiosità dichiarando che non si può parlare della tal cosa piuttosto che raccontandola subito. Le confidenze nascono nel segno del silenzio (te lo dico a patto che non lo sappia nessuno), le minacce sono fatte di omissioni (tu sai cosa intendo...), e il corteggiamento è il trionfo del non detto. Gli amanti si scambiano cenni verbali, frasi ellittiche più che discorsi. Molti più gesti e sguardi che parole».
E il "tacere sociale" di cui si parla nel libro? «È il silenzio del galateo, della cortesia, dell'eufemismo. All'ennesimo regalo desisamente poco originale nessuno risponderà: "Grazie, questo è il decimo paio di guanti da quando ci conosciamo!"».
Insomma, riscoprire dunque il silenzio un po' per gioco? «Si può sorridere anche di cose molto serie, lo credo che oggi ritrovare il silenzio significhi soprattutto ridare valore alla comunicazione, rifondarla sul terreno della reciprocità. Chi parla ininterrottamente si rivolge al nulla. Riconoscere l'altro significa anche interrompersi per ascoltarlo».
Ma ci si può capire senza parole? «Certamente. Uno degli autori del libro cita una bellissima frase di Shakespeare: "Udire con gli occhi appartiene al fine ingegno dell'amore"». |
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