IL SUCCESSO DI UN FILM TEDESCO SENZA AZIONE NE' PAROLE RIPROPONE L'ARTE DI TACERE
Ssst! Parla il silenzioAnzitutto
Nel mondo dei rumori e degli applausi un bisogno vitale che conquista adepti
di Mario Baudino
NEL 1771, a Parigi, l'abate Toussaint Didier pubblicò il suo trattato sul tacere, L'art de se taire, tradotto anni fa da Sellerio. Nel 2002, a New York, Paul Rabhan e Tony Noe, rispettivamente artista e cantante, inventarono con grande successo i «silence party», nelle gallerie d'arte, dove gli ospiti trovano un ambiente privo di musica e di ogni frastuono, e anzi comunicano solo per iscritto. Sono due date prese a caso, non si tratta forse di eventi piu' importanti di molti altri nella storia del silenzio moderno, ma qualcosa ci dicono: e cioe' che la voglia di spegnere per alcune ore o alcuni attimi la colonna snora che avvolge e spesso tortura la nostra vita non e' recente, non e' nata nei nostri convulsi anni postmoderni dove, pur con le migliori intenzioni, si fa baccano persino ai funerali.
Se pero' per lungo tempo e' stata una forma della retorica, una risorsa per parlare e ascoltare, adesso il silenzio e' una medicina esistenziale, una via di fuga sempre provvisoria, qualcosa che sta a mezzo tra una boccata d'aria e un'utopia. E il successo enorme del film tedesco dedicato ai monaci, film silenziosissimo come si racconta in questa pagina, ne e' solo la piu' recente, clamorosa riprova. Qualche hanno fa avevano del resto signoreggiato per mesi in testa alle classifiche dei dischi piu' venduti i frati di Burgos con i loro canti gregoriani: un'armonia che veniva dal cuore del silenzio. Forse siamo arrivati alla saturazione: bombardati da mille musiche tutte insieme, dai messaggi della pubblicita', dai media, dalle informazioni, dai rumori del traffico e di macchine d'ogni genere, dalle chiacchiere, dalle urla, guardiamo ai monasteri come a un'oasi di felicita', ai monaci come a cio' che vorremmo diventare - e non diventeremo mai -: un ideale di vita che ricorda magari il Medioevo, pur sottacendo il fatto che le citta', allora, erano probabilmente altrettanto rumorose, ma almeno la notte tutti chiudevano la bocca.
Il nostro ideale di silenzio non nasce forse da accortezza e prudenza, come consigliava il mondanissimo abate francese del '700, che distingueva quello «prudente» delle persone intelligenti da quello «artificioso» degli individui meschini, o quello «canzonatorio» dall'altro, proprio di chi prova emozioni forti, che e' «spirituale» (e ci sarebbero ancora il silenzio «stupido» e quello «di plauso», quello «sprezzante> > e quello «dell'umore»). Ne' dalla passione, come consigliava, pare, addirittura Pascal, in un testo che gli viene attribuito con qualche dubbio, e che proclama: «In amore il silenzio vale piu' d'un discorso». E neppure dalla filosofia, come lo Zarathustra di Nietzsche che asseriva: «Gli eventi piu' grandi non sono le azioni fragorose bensi' quelle senza voce». Nasce per esaurimento, e qualche volta per moda. Attrae irresistibilmente le pop star come Madonna, che si converte e aderisce a una setta cabalistica, punta di diamante del misticismo ebraico, come tutti i misticismi esperienza silenziosa per eccellenza; seduce col fascino del buddismo - due fra tanti, Richard Geere e Roberto Baggio - e con quello della religione cattolica, per esempio Claudia Koll.
Non sara' un fenomeno di massa, ma ci siamo vicini. Ha aspetti profondi, che vengono dai nostri bisogni, e altri superficiali, che vengono dal sistema dei media, dall'informazione spettacolo, dalla galassia dell'intrattenimento. Ma gli aspetti positivi sono evidenti. Il filosofo Mario Perniola, che ha scritto di recente un pamphlet Contro la comunicazione (Einaudi), e' convinto che siamo di fronte a una «reazione positiva contro un eccesso di comunicazione». E se e' ormai abitudine consolidata il trascorrere periodi di «vacanza dello spirito» nei conventi, condividendo la vita dei monaci, una pratica assai simile si affaccia anche sulle piazze e nelle manifestazioni pubbliche, che ne sembrerebbero proprio la negazione. A Vicenza si e' da poco chiuso un vero «Festival del silenzio», che oltre a conferenze e dibattiti ha proposto una serie di gesti concreti: il silenzio come «strumento quotidiano», come ci spiega Nicoletta Polla-Mattiot, consulente scientifico dell'iniziativa, che l'anno scorso ha curato per Baldini Castoldi Dalai un libro miscellaneo dal significativo titolo Riscoprire il silenzio.
Non c'e' solo il sogno collettivo di imitare i padri del deserto o i grandi filosofi, gli anacoreti e i mistici. Siamo al silenzio «non da Chiesa ma da casa», insiste la scrittrice. Un po' come quello newyorkese (e non solo: tutti gli appuntamenti su www.quietparty.com), un po' pret-a'-porter, un po' per non morire. Intanto, proprio a Vicenza e' stato lanciato il «manifesto delle citta' del silenzio», nato da un'alleanza con l'associazione della «citta'-slow» che raccoglie una cinquantina di centri medio-piccoli, da Brisighella a Fiumicino, da Abbiategrasso a Orvieto, per abbattere l'inquinamento da frastuono. Contemporaneamente, l'Universita' di Manchester ha lanciato il progetto BadVibes per studiare quale sia il rumore piu' spaventoso fra tutti quelli presenti nel mondo. C'e' anche un sito (www.sound101.org) cui fare riferimento per sapere come procede il lavoro. La guerra alle «cattive vibrazioni» sta per scoprire il generale nemico.
INTERVISTA - IL PRIORE DI BOSE Enzo Bianchi
«Ecco perche' la gente viene nei monasteri»
«IL bisogno di silenzio e' reale. Non dimentichiamo che e' anche una reazione obiettiva, umana, a quell'inquinamento acustico di cui non si parla quasi mai» osserva Enzo Bianchi. Per il priore della comunita' monastica di Bose siamo anzi in presenza di una vera e propria «nostalgia del silenzio», che si manifesta naturalmente in modo piu' acuto nelle grandi citta', e che e' un segno dei tempi.
Per questo sempre piu' gente bussa alla porta di monasteri come il suo? Non le da' fastidio il fatto che potrebbe anche essere solo il risultato di una moda?
«No, e' una questione di umanizzazione. Tutti gli strumenti a questo fine sono positivi».
Vuol dire che il desiderio di spiritualita', la ricerca delle fede, non sono la prima istanza che muove i suoi ospiti?
«La fede e' una delle possibilita'. In generale direi che c'e' un diffuso bisogno di interiorita', un desiderio di ''abitare secum'', di stare in pace con se stessi, di trovare nuovi ritmi, nuove possibilita' di ascoltarsi, che spinge la gente verso luoghi come il nostro monastero».
Prima ancora del messaggio religioso, e' l'isolamento quel che si cerca?
«Si', ma non e' facile trovarlo davvero. O meglio, cerchiamo l'isolamento ma poi non ne siamo veramente capaci di viverlo. Spesso chi si rifugia in una zona silenziosa, una campagna lontana, per esempio, viene colto dall'angoscia, non riesce a sopportare la situazione. Pensi a quanti appena arrivati nel loro ''eremo'' personale cominciano subito a popolare il silenzio d'ogni rumore, magari lavorando tutto il giorno con il tagliaerba per sfuggire a questa situazione».
Il monastero, invece, e' un rifugio sicuro.
«Perche' chi viene da noi non si sente solo, trova un silenzio condiviso, un accompagnamento. I nostri ospiti sulle prime sono qualche volta spaventati, poi vivendo con noi capiscono, si aprono a una dimensione diversa. Certo quelli che hanno una fede sono piu' facilmente portati all'ascolto. Oggi piu' che mai i monasteri sono il luogo della fede, piu' delle parrocchie».
E quelli che non hanno la fede?
«Non cercano una fede, ma uno spazio in cui poter vivere e pensare. Un silenzio abitato. Alcuni amici non credenti che frequentano la nostra comunita' lo dicono esplicitamente: noi veniamo per ascoltare il silenzio».
BOX - «E' nel convento di clausura che l'uomo comincia a udire»
di Marina Verna
QUANTA bellezza, nella «Grande Chartreuse» di Grenoble. E quanto silenzio. Quindici monaci che vivono in clausura senza mai parlare: l'unico suono e' la campana che ogni due ore li chiama alla preghiera, l'unica voce e' l'unisono del canto gregoriano. Intorno i dirupi, i boschi, l'orto. In questo romitaggio da mille anni sempre uguale e' entrato - con la sua telecamera - il regista tedesco Philip Groening. L'aveva chiesto nel 1984, gli hanno risposto nel 2002 con un biglietto: «Si', ora siamo pronti». Per sei mesi ha vissuto come un monaco, si e' alzato la notte ogni tre ore per la preghiera, ha spaccato la legna, sarchiato la terra, pulito verdure, pregato, filmato. Aveva 120 ore di materiale, dopo il montaggio ne sono rimaste quasi tre: un tempo lunghissimo, per un film. Soprattutto se non c'e' azione ne' parola. Ora Il grande silenzio - presentato a Venezia lo scorso settembre - e' arrivato nelle sale tedesche ed e' un successo. «L'esperienza piu' profonda che un regista possa trasmettere a uno spettatore e' la percezione del tempo - ha spiegato Groening -. Di solito questa esperienza viene coperta dalla storia e dalla parola, il mio film la porta in superficie». Naturalmente c'e' una trama: la vita quotidiana di 15 uomini che vivono in comunita', ma ognuno per conto suo. Non e' pero' la trama che conta. Il film e' una grande meditazione sul senso della vita, la bellezza del mondo, la quotidianita'. «Si', siamo felici», dice alla fine l'anziano monaco cieco. Ogni gesto e' vissuto con grande lentezza e chiara consapevolezza di che cosa esso sia. La poverta' - quasi struggente, con i piedi nudi nei sandali e la piccola stufa nel gelo degli inverni alpini - non e' miseria, e' rispetto delle cose, «perche' tutto e' stato fatto dalle mani di un uomo». Dopo aver mangiato, i monaci sfregano le vecchie posate di latta come argenteria di famiglia. E il monaco-sarto cerca i bottoni per il mantello del novizio nella scatola dove ha messo quelli tolti ai mantelli dei confratelli defunti. Quando taglia la nuova tunica, si sente il rumore delle forbici che aprono la stoffa. «Solo nel silenzio l'uomo comincia a udire», dice il regista. E confessa che il fruscio della sua giacca gli era diventato insopportabile.